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Bulimia digitale e la beffa del gallo

A San Pietroburgo siamo stati all’ Ermitage.

E’ talmente sterminato che ci abbiamo messo due giorni, sebbene di solito dopo poche ore io inizi a soffrire di narcosi da museo e cominci ad accelerare senza perdono. Un vero appassionato di arte ci avrebbe messo una settimana, 8 ore al giorno. In ogni caso, intenditori o no, e’ imperdibile.

Per dirne una l’espressione di tenerezza infinita di Maria nella “Madonna con Bambino” di Leonardo mi ha estasiato, e mentre ero li’ incantato sono stato leggermente infastidito dalle interminabili comitive in gita organizzata vomitate senza sosta dalla sala accanto. Gioco forza mi sono fatto da parte per osservarli, sempre piu’ incredulo e sconcertato: l’unica preoccupazione era quella di scattare una foto con lo smart-device del caso e scappare via di corsa, non un momento di contemplazione, non un attimo per guardare da vicino coi propri occhi un capolavoro e magari emozionarsi per sbaglio. Solo lo scatto resta, solo un ammasso di pixel da mostrare come prova a conoscenti e amici importa. Ho visto turisti voltare le spalle a Picasso e Van Gogh per fotografare una tenda o l’ennesima veduta della sponda opposta della Neva dalla finestra. Hanno l’anima rimpiazzata da una scheda SD.

Peacock_Clock

Ma all’Ermitage non ci sono solo quadri, ma statue, reperti, armi, manufatti, interi settori dedicati agli egizi, alle civiltà assire, all’epoca greca e romana, alle popolazioni asiatiche e, naturalmente, russe. Gli stessi ambienti del palazzo d’inverno (che ospita il museo) possono lasciare a bocca aperta, sempre che come me dopo un tot non vi pesi lo sfarzo ostentato di colonnati, stucchi, dorature, lampadari, intarsi, marmi,specchi, scaloni, balconate e vi manchi l’aria. All’interno di uno di questi saloni si trova però qualcosa di stupefacente, almeno per me: The Peacock Clock, l’Orologio del Pavone. Un orologio meccanico gigante del XVIII sec., manco a dirlo, dorato, che segnava il tempo attraverso i movimenti di un gufo, un gallo, una piccola libellula, dei funghi sulla base circolare e di un regalissimo ed altezzoso pavone munito di altrettanto superba codona. Un filmato lì accanto lo mostra in azione, con tutti i suoi animali in movimento al cambio dell’ora, ruota e canto del pavone compresi, che meraviglia, doveva essere un meccanismo elaboratissimo per l’epoca, tipo automa di Hugo Cabret. Che peccato non poterlo vedere in funzione dal vivo, chissà da quanto tempo non lo caricano più e se il meccanismo è ancora intatto…Inaspettato pure che tutto il personale interno, dai guardaroba, agli sportelli, alla vigilanza nelle sale sia esclusivamente femminile, generalmente sull’attempato, ma di una scrupolosità quasi militaresca direi. Molto meno efficenti le signore al banco informazioni che non sono riuscite a mettere insieme una frase in inglese da cima a fondo; lavorate alle info del museo più grande al mondo, mica quello delle sottocoppe di peltro, perdio!E poi un’altra lacuna incolmabile nel settore avvisi al visitatore che mai perdonerò: il nostro secondo giorno di visita era mercoledì ed il museo chiude alle 21, info segnalata, e fin qui tutto bene. Verso le 19 una vigilante di sala comincia a farci segno di muoverci, indicando l’orologio, balbettando ‘tempo’ e mimando delle ali con le braccia; siamo confusi, ma non chiudeva alle 21? Alla fine ci rassegnamo ad avviarci, seguendo tutti gli altri che come noi corrono via, finché non ci ritroviamo nella sala del famoso orologio del pavone e… trauma: la teca è circondata da una folla pigiatissima con cellulari e telecamere, ecco dove correvano tutti e di cosa gesticolavano le guadiane! Alle 19 il pavone aveva fatto la ruota, il meccanismo si era animato, l’orologio aveva dato spettacolo, e noi l’avevamo mancato per un soffio. Unica magra consolazione, essere riusciti a sentire il gallo cantare alla fine di tutto. Solo dopo ho scoperto che l’orologio funziona ancora perfettamente e che viene caricato e messo in moto solo una volta alla settimana, il mercoledì alle 19. Merda.Avvertire no eh? Maledetti.

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